Ultimi posti sotto le macerie – 90 gradi, peso forma, no pessimisti – Poesie di Massimo Avenali

Ultimi posti sotto le macerie

90 gradi, peso forma, no pessimisti

Il libro è una raccolta di poesie di Massimo Avenali, scritti composti tra gennaio e luglio 2010, pubblicazione uscita per le Edizioni Noubs di Chieti, nel 2012, nella collana Babele. Queste le parole dell’editore Massimo Pamio, nella sua nota introduttiva all’opera. A seguire, alcuni dei componimenti presenti nel libro.

IL POETA DELLA DENUNCIA DEL MALE ITALIANO
Poema-diario, “Ultimi posti sotto le macerie. 90 gradi, peso forma, no pessimisti”, potrebbe costituire lo scarno registro di un soldato al fronte, diario di guerra di un sopravvissuto che contempla con orrore e spietata lucidità i fumi che si alzano dal campo di battaglia, senonché l’ambiente descritto non ha nulla a che fare con un teatro bellico, e l’attore è solo il fedele estensore di una cronaca quotidiana osservata con le lenti di un acuto notomizzatore. In un’atmosfera apparentemente postatomica e post-umana si svolge la vicenda del protagonista, che si misura e si scontra con la realtà in un corpo a corpo che lascia marchi e ferite sul Corpo Sacrificale dello Scrittore, luogo testuale, morfologico e sintattico, che incide su di sé i passaggi del giorno e della notte come in un sogno, a volte incubo, a volte illusione, a volte realtà in cui “il sogno è immerso”. Cronopoiesi e diapason di una partitura che registra e osserva l’immensa vacuità del mondo, il testo svela l’incredibile nulla che si cela dietro ogni gesto della società civile italiana nell’anno 2010, di cui Avenali analizza la mancanza di etica e di valori, nel tramonto definitivo della ragione occidentale e nella carenza di senso insita nel gesto di vivere. Per convincersi della vanità imperante del Tutto nella nostra società, il Poeta-Corpo è costretto a descrivere minuziosamente i frammenti delle macerie, a fermare con il rewind o con il fermaimmagine il film dell’ambiente delle rovine nel quale velocemente trasciniamo le esistenze – invisibili gli uni agli altri, per rovistare con lo sguardo i fotogrammi di un mondo iperrealisticamente inesistente, vuoto di palpiti, in cui ogni atto è privo di motivazioni, di sofferenza – un mondo narcotizzato e inerte, oggetto senza vita. Il poeta-narratore è indotto a cercare il luogo dove la prostituta con cui poco prima ha scambiato un dialogo, si rifugia per vendersi. Tutto accade in pochi minuti, in pochi metri: e così come non sembra crederci il poeta, così noi lettori ne rifiutiamo l’accadere; improvvisamente, in una illuminazione postmontaliana, ci si svela il nulla. La denuncia di Avenali, sebbene poeticamente lieve, è violenta, spiazzante, cruda e terribile, forse mai avevamo letto un testo in cui il reale si mostra in tutta la sua oscenità – nella sua mancanza di senso. Il sentimento che proviamo noi lettori è quello della vergogna, vergogna di fronte a un mondo indegno, immorale, perso dietro il nulla che cerca di coprire e nascondere, ma l’occhio fotografico e impietoso di Avenali ne svela tutta la laidezza: lo scrittore compie una ricognizione cadaverica della società postcapitalista dei consumi, dove tutto è stato consumato e restano solo brandelli di rifiuti, oscenamente gettati per terra, dove le regole commerciali della domanda e dell’offerta si sono tradotte nella svendita di tutto, nella riduzione a merce di ogni cosa, e dove dunque più niente ha prezzo, ma tutto è frammento, residuo di qualcosa che ha perso ogni valore di scambio, di uso. La merce è la Morte dell’Oggetto al grado zero del suo valore. Nulla ci sopravviverà, e se qualcosa ci sopravvive – se qualcosa resta nel deserto descritto da Avenali – è la profonda miseria in cui le azioni umane si compiono, oggi, in un’ultima scenografica rappresentazione ingloriosa, che è l’esatto contrario dell’epica. Perfino il tragico kafkiano e celiniano e l’assurdo beckettiano qui non hanno asilo, è vero solo l’esilio ultimo delle cose esibite nell’oscenità, ovvero nella mancanza di pudore, di valore, e soprattutto nella
mancanza di una maschera che forse poteva ancora reggere la scena della rappresentazione: se tutte le maschere cadono, rimane solo l’oscenità di un deserto di morte dove l’uomo è nient’altro che l’ultima vergogna di questo mondo, e la peggiore, la iena che non ha più neanche la consapevolezza di essere. Un periodare greve, quello poematico di Avenali, da incubo, da romanzo horror con protagonisti gli zombie: ogni speranza è finita, ogni illusione cancellata, oscurato il futuro. Questo libro narra impietosamente il sentimento di un futuro strappato ai giovani, di un tempo storico che inganna e defrauda i migliori e soprattutto le forze giovani di un paese che con indifferenza colpevole e vergognosa assiste a tutto questo senza ribellarsi, con uomini che vestiti da porci sprecano le ultime risorse di un “paese senza”. L’Italia è paesaggio da zombie, un paese che negli ultimi decenni è sprofondato nell’indifferenza più colpevole, ma soprattutto ha perso ogni pudore, scheletro senz’anima. Per questo, il libro di Avenali è forse la denuncia più viva che io abbia letto negli ultimi tempi, molto più viva di quella contenuta in romanzi privi di stile, forgiati nelle scuole omologanti di scrittura creativa dei grandi editori mangianulla, ormai risucchiati dal politically correct che nel mondo letterario italiano ci fa recensire libri di amici che invece meriterebbero la spazzatura, che fa vincere premi a libri che non meriterebbero neanche di essere letti, tanto sono scritti male, vuoti di contenuto. Vuoti, come il nostro Paese, bidone del Nulla.


Come un cercopiteco indeciso tra un suv e un hammer

per caricare di sconti il portabagagli
Code per le griffe scontate
che non è un errore
per dire giraffe
senza vocali.
Ma code e colli allungati
proprio come giraffe
per meglio rovistare.

Alla cattura del capo migliore,
un capo per abbigliamento,
un capo per comandare
quanto si dimostra di essere
con addosso un capo.
Per non pensare quale fatica sia
il pensare.

Saldi, fermi, ancorati.

Sale: in inglese.
Sale: in italiano: sale in testa.
Cum grano salis: in latino.
Sale.
E scende.
Per rincorrere sempre
lo stesso punto di svista.

E come navigatori -sailorsmarinai
tra le correnti umane
a spingere verso e contro
il trenta e cinquanta e oltre per cento in meno;
meno che mai per quelle griffe,
animali, ma certo,
di uno zoo a strane vocali.

Che tanto
per comunicare
bastano consonanti.
Assonanti almeno a una marca,
purché
marca
sia.

2 gennaio 2010


Passaggio a nord ovest

Si sciolgono ghiacci,
l’aria non sarà più
come schegge di vetro
in gola e negli occhi,
l’inverno cadrà
nelle pelli abbronzate,
nei gelati gusto frutta,
negli oli dopo sole.

E dopo sole poche settimane
in confronto a millenni
le estati avvamperanno
e gli uomini anche
come cerini in fornaci
e il rosso odor bruciato
costellerà i cieli di sempre.

Ma.

Si aprono passaggi nuovi,
mentre i Grandi
ancora non pronti
ad ammettere l’evidenza,
nello sciogliersi in tragedia
riemergono nuovi miti,
nuovi giacimenti,
nuove rivendicazioni
e diritti
per chi prima e chi dopo,
chi di più e chi di meno.

Un passaggio a nord ovest,
a nuove rotte e commerci,
giochi e ruoli e poteri.

Un passaggio,
per quei ghiacci non più tali
e quasi allora un bene.

Mentre.

Mentre i giornali titoleranno
in quell’unico giorno rigido
di freddo e intemperie
“E lo chiamavano surriscaldamento globale”
e tutto sembrerà normale,
naturale.

Mentre.

Mentre staremo in attesa
dell’arrivo dell’Apocalisse,
indispettiti del suo ritardo,
delusi della sua manifestazione
scialba e difficile da capire
se già è o non è.
Sfogliando i soliti aitanti culi
dai sorrisi plastici
già in via di torrida liquefazione.

7 gennaio 2010


Almeno, almeno no, almeno quello, almeno me

Mentre la patata è transgenica,
la politica transfottente
e gli immigrati transitivi nel giallo.
Mentre crolla addosso qualcosa
e non sappiamo neanche cosa
senza impedire legittimamente che avvenga.

Mentre.

Vedo sfoghi frustrati
che guidano crociate
punendo bestemmie in campo
che non è bello e non si fa
ignorando la blasfemia dell’intorno
impegnato a spartire sedie
a puntare indici
a indicizzare bisogni
ad abbuffarsi della parola amore
a difendere una specie estinta
a bucarsi il cervello senza fili
a sfilare su passerelle vuote
a sminuire l’imminente grave
e far greve l’informazione
a sudditarsi all’umiliazione.

E a questo
dirò no.
Almeno no.

Ma per non bestemmiare il me stesso,
almeno quello, almeno me,
senza sapere che nel frattempo
la bestia degustata alla brace,
avrà già digerito la perfezione del gene,
e giocato a poker on-line con Totti.

3 marzo 2010


Psicostasie #1

Ci preoccupiamo della /forma/,
mentre la sostanza se ne va alla deriva.
La chiameranno “la deriva degli incontinenti”
scontri di bisonti marini
a pisciarsi sotto dalla paura.
Paura di non esserci
nonostante pin, abi, password.
E codici fiscali,
fiscalissimi!,
attenti che non sia partiva l’iva
che non ci sia meno del dovuto,
nel debito di avere, da ogni parte,
da -come moto da luogo- ogni parte.
E senza arrivo.
Essenza di movimento.
Mentore cinico il viaggio fidato,
custode di avere senza dare.

Decostruito il desueto stato
per un processo di sottrazione mirata,
di mancanza di abitudine a qualcosa,
dai frammenti ancora si riassembla e
-ancoraormaiinvano.
Senza riuscire a prendere
altra
nuova
/forma/.

Dentro una noiosa e rancida frittura di storia
che torna a se stessa e si rimpolpa di vermi
con l’allora /amorfo/ che resta flaccido
privato, nel suo pubblico essere,
privato, dentro,
di cosa che sia qualcosa davvero.

5 marzo 2010


Transvisioni già spente al domani (forse)

Sono,
a volte,
per dare fuoco
alla tecnologia
ed elettronica
e digitale
in genere.

Tutto finto.

Temo
la perdita di qualcosa
da toccare ancora,
vero,
tra le mani.

Sono
per non perdere almeno (-)
la posizione Erectus
a favore di una simbiosi,
piegata su una sedia
con tanto di ruote per spostamenti veloci.
Con culo e ginocchia
ossidate alla medesima altezza
e piedi
come leve
per farsi scorrere sul pavimento…
e dita…

… dita con impronte digitali
fatte di lettere
pigiate sulla macchina.

Sono
per non smarrire il Sapiens
neanche più Habilis
se non a interpellare
la mente costruita
su unione di saperi,
mente detentrice allora
del Sapere
superiore a qualsiasi singolo.

Vedo
le informazioni immesse,
passaggio dal cervello umano
al cervello elettronico
in un contatto bi-edonistico
con l’umano vanto di se stesso,
trasposto in bit e amplificato.

Vedo
i vasi comunicanti,
i livelli differenti,
la conoscenza scorrere
da sopra (uomo) a sotto (macchina)
e l’inverso della bilancia
che abbassa il braccio con il minor peso
(involucro del vacuo)
e innalza il nuovo inumano
(colmo altresì di quel che era stato – respiro e battiti).

E non vedo più,
che persino è antico,
uno schermo.
Ma proiezioni,
luci,
a formare immagini e segni:
una foto e un libro
e suoni dalla luce stessa,
le note leggere e profonde
di un notturno di Chopin
e l’esplosione
di una interazione
che nasce dal nulla
e da una sorta di meta-esistenze.
Ché invero ne è il ventre
androgino e creatore.

E poi un bottone/che non chiude
un tasto/che non tocca
un interruttore/che non ferma
un pulsante/che non batte.
E allora
FINITO.
Chiuso.
BASTA.
Spento.

CLICK.

Ché non ha suoni l’azzeramento
ma una convenzione di cinque lettere
con la chimera che non siano le sole
per una circonvenzione di incapaci
pienamente voluta e raggiunta.

CLICK.

13 marzo 2010